Intervista a Padre Davide Sciocco

Carta di identità:

Nome: Sciocco Davide

Nato a Parabiago (Mi) nel Dicembre del 1963 e battezzato a Parabiago.

 

Dove hai vissuto?

Ho sempre vissuto a Canegrate. Dopo circa un anno di età i miei genitori si sono trasferiti a Canegrate, dove si è svolta tutta l’attività formativa: scuola e oratorio li ho fatti qui a Canegrate; sono cresciuto qui.
La mia famiglia era molto coinvolta in parrocchia. Per me è stato naturale quindi, sin da piccolo, iniziare già facendo il chierichetto dalla seconda elementare e seguire le attività dei chierichetti e dell’oratorio. Anche quando si è iniziato ad andare in campeggio, nel 1978 –79, con don Francesco, la mia è stata una delle prime famiglie ad andarci, per aiutare a preparare, a cucinare, a cercare le pentole: il clima familiare mi ha introdotto nella vita della parrocchia. In quegli anni si andava a Ceresole, ma si cambiava ogni tanto, dal momento che la struttura era più agile e c’erano poche pretese.

 

Com’era Canegrate quando eri piccolo?

La vita di paese è bella perché ci si conosce tutti, anche se Canegrate è abbastanza grande, ma con la scuola e l’oratorio c’era la possibilità di conoscersi, di aiutarsi a vicenda.
Quando facevo le elementari e le medie, l’oratorio non era molto attivo, ma dopo, con don Francesco, c’è stata una forte spinta: anche quando sono entrato in Seminario, sono sempre rimasto in contatto per l’oratorio feriale e il campeggio.
Sono sempre rimasto legatissimo a questa dimensione di paese, che permette di conoscersi e di sentirsi sempre a casa, anche per me che all’età di 14 anni sono entrato in seminario.

Com’eri da piccolo?

Come carattere inizialmente sono timido, ma poi pian piano mi butto fuori. Ad esempio riuscivo a coinvolgere nell’oratorio anche qualche mio compagno di scuola, con cui ho fatto le elementari e le medie, e con cui siamo ancora legati. Superata l’iniziale difficoltà di inserimento, infatti, divenivo poi una persona che cercava di creare gruppo, di creare amicizia, di coinvolgere, per cui avevo tanti amici.
A scuola andavo abbastanza bene, per cui ogni tanto facevo spontaneamente venire a casa mia qualche compagno che aveva più difficoltà a scuola, in modo da fare i compiti con me e poi giocavamo e ci divertivamo.
È così che ho iniziato ad aprirmi verso l’altro, aiutando gli altri a scuola: con l’amicizia e con l’attrazione del gioco, si studiava insieme, così hanno superato le loro difficoltà e hanno finito la scuola.

 

Se non avessi fatto il padre missionario, cosa avresti fatto?

Quando si è piccoli vengono tante cose per la testa, però devo anche dire che io sin dalle elementari pensavo di diventare prete, mentre l’idea di essere missionario mi è venuta dopo, quando già ero in seminario diocesano.
Non posso dire di avere pensato ad altre cose, perché sono entrato in seminario a quattordici anni: all’età fine delle elementari-inizio medie ero già orientato verso questa scelta.

Come è avvenuta la chiamata?

Dunque io riconosco due chiamate: la prima è quella di essere prete, che è sorta così molto spontaneamente facendo il chierichetto. In oratorio mi piaceva la figura del prete che si dedica agli altri e appunto nella mia semplice preghiera dicevo al Signore ”Se vuoi che io possa aiutare gli altri mostrami il cammino; se vuoi che diventi prete però aiutami ad essere un prete santo”. Quindi la chiamata ad essere prete è venuta fuori ed è cresciuta così spontaneamente.
Invece quando ero nel seminario diocesano ricordo bene un incontro con un missionario che era venuto a parlarci dell’Africa e che aveva fatto questo appello dicendoci: “Vi vedo qui in tanti e vorrei che qualcuno di voi venisse ad aiutarci”. Ci ha detto che veniva dall’Uganda e ci ha parlato della difficile situazione che c’è lì: della persecuzione della Chiesa e dei grandi bisogni che c’erano perché tante persone ancora non conoscevano Gesù. Ecco quando ha fatto quell’appello ho sentito che era per me e da allora, quando venivano i missionari in seminario, o quando leggevo una rivista missionaria, mi entusiasmavo.
Quindi, confrontandomi anche col Padre spirituale, vedendo che questo entusiasmo non si placava, che non era ”un fuoco di paglia’, ho capito che questo era un segno che il Signore mi chiamava ad essere missionario. Così, dopo la maturità conseguita al Liceo Classico (frequentato prima nel seminario di Seveso e poi a Venegono) ho chiesto di entrare in un seminario missionario e mi hanno indicato il PIME. Quindi dopo la maturità, a diciotto anni circa, sono entrato nel seminario missionario del PIME a Monza.

Quando sei stato ordinato padre missionario?

Dopo aver fatto i sei anni del cammino del seminario del PIME, nel dicembre del ’87 sono diventato diacono e l’11 giugno ’88 sono diventato prete.
Ricordo che qui a Canegrate ho celebrato la mia Prima Messa: è stata molto partecipata, molto bella e molto grande, anche perché, essendo cresciuto in oratorio e avendo fatto sempre l’oratorio feriale, i campeggi, ecc… è stata proprio una messa di famiglia, molta allargata.

Cosa ricordi di quella giornata?

Devo dire che ogni anno, l’11 giugno, riascolto la registrazione della mia prima messa, ed è sempre un’emozione molto grande perché ricordo l’accoglienza. Già da casa mia abbiamo fatto la processione, anche se pioveva molto forte e la banda non ha potuto suonare. La Chiesa era però strapiena; i canti erano molto belli, molto ben preparati. La presenza della mia famiglia, la predica fatta da Padre Liopoldo, che è davvero un santo missionario, morto giovane, ma di cui la gente ha da dire: ”questo è il corpo di una grande santità, di una grande umanità e di una grande fede”.
Ricordo anche una grande gioia, una gioia di avere davanti tante persone di Canegrate, ma poi erano venuti anche dagli oratori dove son stato seminarista. C’era addirittura la mia maestra, che era venuta dall’Abruzzo, i miei compagni di classe, c’era qualche esponente dell’Amministrazione comunale, il Sindaco e un po’ di tutte le associazioni.

Era stato un rito davvero molto bello e al pranzo in oratorio eravamo circa in seicento. Era aperta a tutti, bastava dare il proprio nome e si partecipava, perché il mio desiderio era di poter stare con tutti gli amici e quindi è stato un momento davvero molto bello.
Inoltre visto che c’era anche padre Liopoldo che era missionario proprio in Guinea Bissau hanno fatto anche alcuni canti tipici di quel posto. Allora non sapevo che quattro anni dopo sarei stato in Guinea Bissau, quindi si potrebbe anche definire come un segno di quello che sarebbe avvenuto nella mia vita.

Come mai questo bellissima tradizione di riascoltare la propria prima messa?

È un modo per ringraziare il Signore della vocazione perché io sono sempre contento di essere prete, di essere missionario.
È un modo anche per sentirmi vicino alla mia comunità di Canegrate,

perché quando la riascolto in genere non sono qui: riascoltarla mi fa ricordare che il missionario non è un solitario che se ne va, o che, come magari qualcuno pensa, ”là è meglio che di qua”, perché il missionario che parte perché non è contento di dove vive, fallirà dal momento che la sua tristezza se la porta dietro. Invece a me costa lasciare la mia famiglia, i miei amici, la mia parrocchia. Mi costa, ma lo faccio per qualcosa di più grande. Quindi riascoltare questa messa mi fa sentire che io sono partito perché mandato dalla Comunità, che mi ha donato la fede. La mia fede è stata donata e cresciuta attraverso il dono di Dio e attraverso persone concrete che sono i miei genitori, che è la mia famiglia e la comunità di Canegrate.

Cosa è successo dopo la prima Messa?

Dopo la prima messa ho fatto tre anni e mezzo al PIME di Milano, seguendo i giovani interessati ad andare in missione: sono stati tre anni e mezzo molto belli, ricchi di tantissime iniziative. Nel 1992 sono stato destinato alla Guinea Bissau: sono stato sei mesi in Portogallo per studiare il portoghese, che è la lingua ufficiale della Guinea Bissau, e nel novembre del ’92 sono arrivato in Guinea. Lì ho fatto dodici anni nell’interno, a Mansôa.

Il lavoro lì era molto bello, di primo annuncio della Parola: nel nostro territorio c’erano cento villaggi e noi andavamo a visitarne alcuni, non tutti perché molti erano musulmani. Non c’erano comunità cristiane, ma solo qualche famiglia sparsa su tutto il territorio. Io sono stato in villaggi dove non c’era mai stata nessuna presenza missionaria: ero il primo missionario ad andarvi in modo stabile per iniziare un cammino di conoscenza del Vangelo.
In alcuni di questi villaggi ancora oggi non ci sono cristiani, quindi non dobbiamo pensare che qui adesso è difficile invece là in Africa, basta aprir la bocca e tutti ti seguono: un conto è la stima verso il missionario e un conto è l’aderire alla proposta cristiana, che richiede un cammino molto lungo di conversione.

Quali sono dunque le difficoltà incontrate nell’essere un Padre missionario?

Le difficoltà certo non mancano: la difficoltà a lasciare la famiglia, che aumenta con l’avanzare degli anni, e poi comunque la vita qua ha tanti vantaggi che là non si incontrano, come lo stile di vita. Qua ci sono tante comodità che là non ci sono. C’è poi il salto culturale: questa è la difficoltà più grossa, perché la mentalità, il modo di dire, il modo di relazionarsi è diverso.

Quindi per me la grossa difficoltà iniziale non è stato che mi mancavano le comodità, anche se, certo, quando fa caldo qui ci lamentiamo, però accendiamo o l’aria condizionata o il ventilatore e il clima cambia un pochino. Là invece, non essendoci la corrente, è tutto più complicato: in certi periodi dell’anno ci sono 40°-45° gradi; altrimenti si è sui 30°-35° con molta umidità.
Queste difficoltà però si superano, quello che è più difficile da affrontare è proprio il modo diverso di affrontare la vita, anche le relazioni: io qui ero abituato a essere in mezzo ai giovani e a relazionarmi in un certo modo. Arrivato in Guinea, quando mi proponevo ai giovani, vedevo che la reazione era diversa da quello che mi aspettavo, perché il loro modo di manifestare l’amicizia, e anche i tempi per aprirsi a uno che veniva dall’altra parte del mondo, erano diversi. Con il passare del tempo, poi, uno lo capisce che c’è da parte loro una certa lentezza ad aprirsi e un rispetto verso il prete, che però rischiava di creare un muro di divisione. A me piaceva giocare e scherzare con loro, però per loro questo non era così immediato. Questo mi ha fatto soffrire all’inizio.
Anche il modo di manifestare l’amicizia è diverso, come la loro gestualità, anche perché tu arrivi da un’altra parte del mondo, quindi c’è sempre un misto tra la ricerca dell’amicizia, la ricerca di un aiuto, la ricerca di benefici e quindi anche la difficoltà a distinguere chi ti cerca perché ti cerca come prete, quindi anche per un discorso di fede, da chi ti cerca come amico, da chi ti cerca perché ha solo degli interessi. Anche questo crea delle difficoltà.

Però poi piano piano sono nate delle bellissime amicizie, dei bellissimi rapporti, al punto che, quando mi è stato chiesto di lasciare temporaneamente la Guinea, mi è costato tantissimo.

Ho fatto belle amicizie con famiglie, con giovani e poi quelli che ho visto crescere, che ho conosciuto da ragazzini e che adesso hanno formato famiglie. Dopo si creano delle relazioni belle, secondo lo stile che è di quella cultura, di quella realtà.

 

 

Quale è la religione più diffusa in Guinea Bissau?

La religione principale sono le religioni tradizionali che sono seguite da circa la metà della popolazione, poi 40% sono musulmani e circa il 10% sono cristiani tra cattolici e protestanti, quindi una piccola minoranza.
Io ho iniziato questo lavoro di prima evangelizzazione naturalmente insieme a tantissime attività di aiuto e di promozione umana, perché la Guinea è una delle nazioni più povere del mondo, quindi anche grazie al grandissimo aiuto che mi veniva principalmente da Canegrate e da altre realtà. Abbiamo così aiutato sia nel fare pozzi per assicurare l’acqua, nel costruire scuole, centri sanitari, a promuovere varie attività in favore della donna, dei bambini, dei disabili. È stato un periodo di grande attività sia religiosa, che sociale.
In quel periodo, tra il 1998 e il ’99, c’è stata anche la guerra civile: è stato un periodo molto intenso perché gli scontri avvenivano soprattutto nella capitale, ma noi eravamo a sessanta chilometri, quindi eravamo il centro più grosso dove veniva a rifugiarsi la popolazione che scappava dalla città: circa 500 mila persone sono uscite dalla capitale e i primi mesi c’erano forse 40-50 mila persone che vivevano lì.
Come facessero a mangiare tutti i giorni lo sa solo il Signore. Già prima della guerra facevano fatica a trovar da mangiare tutti i giorni, come riuscissero ciascuno ad avere 20-30 persone in casa non si sa: gli aiuti umanitari sono stati veramente pochi. Anche noi cercavamo di aiutare, però non si possono sfamare 40.000 persone tutti i giorni. È stato davvero un periodo molto intenso di ricerche di aiuti, di sostegno. I primi giorni si andava per le strade ad aiutare quelli che scappavano, che facevano 60 chilometri a piedi per scappare dai bombardamenti: si cucinavano quindi anche 300 chili di riso al giorno per dare da mangiare lungo le strade; si assisteva chi era ferito e chi era ammalato. C’erano donne che partorivano per strada, perché la guerra ti prende ciascuno nella situazione in cui ti trovi. Si cercava anche di fare da mediatori con i militari, perché non facessero del male alla popolazione, cose che invece purtroppo è successa: ci sono state violenze gratuite.

Noi abbiamo scelto di rimanere lì anche quando poi ci sono stati gli scontri anche a Mansôa: non siamo fuggiti, ma siamo rimasti perché la missione era diventata l’unico ospedale e anche perché la nostra presenza dava un po’ di sicurezza alla gente, che non sarebbero rimasti soli in balia di militari violenti.

Dopo pian pianino si sono riprese le attività, anche se dopo la guerra la situazione era molto più difficile, perché c’era stato un passo indietro molto pesante.

Nel 2004, dopo dodici anni, sono stato chiamato a dirigere il Centro Missionario di Milano per tre anni e mezzo e poi sono ritornato in Guinea, dove ho trascorso gli ultimi cinque anni nella capitale Bissau, anche perché nel frattempo io avevo aperto una radio, nata subito dopo la guerra proprio per aiutare a creare un clima di pace, di riconciliazione. Si trattava di una radio molto piccola fatta insieme ai musulmani e a persone di etnie diverse, proprio perché fosse una radio di pace, Sol Mansi (che significa “il sole è sorto”). Poco alla volta la radio è cresciuta, anche mentre ero via, sebbene faticosamente perché era proprio agli inizi.
Quando sono tornato in Guinea Bissau, il vescovo mi disse che era arrivato il momento di diffonderla in tutta la nazione: ero quindi a Bissau proprio con questo incarico!
Ora Sol Mansi è diventata la radio nazionale della chiesa e tutt’oggi è la radio più ascoltata della nazione.

 

La radio è della Chiesa o sono rimaste all’interno tutte le diverse religioni?

Radio Sol Mansi è la radio della Chiesa, ma lo stile che ha è uno stile di dialogo: più o meno la metà di chi lavora in radio è costituita da musulmani e anche la programmazione è una programmazione che dà spazio alla comunità islamica, alla comunità evangelica protestante, alle associazioni.
Si tratta dunque di una radio che sicuramente si pone come servizio primario quello di annunciare il Vangelo: l’ho pensata come missionaria, per parlare a quel 90% della popolazione che non viene in Chiesa, non perché non vuole venire in chiesa, ma perché non conosce la fede cristiana.
Volevo fosse una possibilità di far conoscere il Vangelo, la fede o per lo meno i valori del Vangelo anche agli altri e vincerne i pregiudizi, perché quando non si conosce l’altro si hanno tanti pregiudizi, e per favorire il dialogo tra le religioni.
In più questa radio ha tanti programmi di educazione alla pace, sui diritti umani, sulla promozione della donna, sulla prevenzione delle malattie, sull’educazione sanitaria. Inoltre offre anche quei programmi di musica, di intrattenimento, che deve avere una radio per poter essere ascoltata.
Il mio lavoro negli ultimi anni era stato soprattutto in questa radio, per cercare anche di farla diventare autonoma, tant’è vero che quando io son venuto via, la radio ha continuato, e continua ancora a esistere: il direttore è un laico della Guinea Bissau molto bravo e c’è una suora italiana come co-direttrice, ma tutto lo staff, tutta l’organizzazione è in mano alla gente del posto. E questo deve essere appunto il nostro modo di lavorare, cioè iniziare le cose, per poi consegnarle alla diocesi o a realtà locale che sono in grado di portarle avanti, in modo che poi possano continuare con le loro forze.
Quindi la radio in questo ci sta riuscendo.

 

Quindi poi tu te ne sei andato via …

Sì io ho fatto 5 anni, dal 2008 al 2013, a Bissau, in una parrocchia molto grossa della capitale, che ha alcune attività simili alle nostre parrocchie: c’era un grosso gruppo scout, l’azione cattolica e tante altre attività. Però c’era tutta una parte che riguarda anche l’attività missionaria: noi avevamo in carico il catecumenato. Ogni anno infatti avevamo la preparazione di circa 80-100 persone, tra giovani e adulti, per il battesimo; tenendo conto che la preparazione dura sette anni, c’era anche un grande sforzo di preparazione dei catechisti per queste persone. Ai tempi io lavoravo in radio e aiutavo in questa parrocchia.
Nel 2013 sono stato eletto nella direzione generale PIME come vicario generale. Si tratta di un servizio che dura sei anni: a maggio di quest’anno c’è stata la nuova assemblea generale che ha eletto una nuova direzione e io, grazie a Dio, sono stato rimandato in missione in Guinea Bissau, perché il nostro essere mandati in missione è un essere inviati per tutta la vita.

Quando torniamo, quindi, torniamo per un servizio, terminato il quale uno riprende in genere nella missione dove era.

 

Questa è una cosa bella del PIME: che uno, anche se è stato superiore, quando ha finito il proprio servizio ritorna a essere missionario semplice, riprende a fare la vita del missionario, tra la gente.

Io son contento di poter riprendere questo cammino.

Quindi adesso sei qui in Italia, ma poi tornerai a Bissau, nella capitale?

A metà settembre riparto per la Guinea Bissau, ma non so ancora dove lavorerò: quando andrò giù si vedrà perché ci sono stati alcuni cambiamenti, quindi insieme decideremo dove andare.

Ci sono stati dei cambiamenti a livello sociale o al vostro interno?

Al nostro interno: ci sono nuovi arrivati, mentre alcuni sono andati via, quindi dobbiamo risistemare un po’ le presenze.

Quanti missioni ci sono adesso in Guinea Bissau?

Ci sono diverse presenze, perché ci sono preti diocesani, le suore di vari istituti religiosi e il PIME. Noi come PIME abbiamo quattro missioni all’interno: uno nelle isole, uno all’estremo nord, uno all’estremo sud, uno a est e poi questa parrocchia a Bissau più alcuni servizi per la diocesi. Ad esempio, un missionario è medico, quindi è responsabile della Pastorale della Salute della diocesi e soprattutto segue il problema dei bambini gravemente denutriti, delle mamme a rischio per la gravidanza e per il parto quindi alcuni di noi hanno questi servizi particolari in diocesi.

È difficile dire che cosa un missionario fa regolarmente: si tratta di un insieme di cose e ognuno di noi ha un proprio servizio da assolvere e dipende dalle proprie competenze personali, da dove vive e da come è organizzato.

Ad esempio, io quando ero a Mansôa diciamo che dal mattino alla sera visitavo i villaggi. Anzi io per un periodo, per alcuni anni, vivevo per tre giorni in un villaggio: ero lì con la gente. Avevamo costruito una scuola e quindi c’era una stanzetta dove io vivevo, ma per mangiare andavo in giro: chi stava mangiando mi invitava e io mangiavo con loro quel che c’era. Quando ero in parrocchia, invece, alla sera c’era la messa e le attività della parrocchia centrale: la visita ai catecumeni, la formazione dei catechisti, il gruppo giovani, il gruppo adolescenti. Quindi alcune attività sono un po’ simili a quelle che possono esserci nella nostra parrocchia qui in Italia, altre invece sono più di prima evangelizzazione e poi c’erano anche tutte le attività sociali, come l’organizzazione della costruzione dei pozzi, o a scuola da seguire i maestri, o seguire anche le pratiche burocratiche, ecc.
Invece se uno è missionario nelle isole, è chiaro che le sue uscite durano molto di più perché solo lo spostamento in mare richiede più tempo: si dorme fuori, si rimane nelle altre isole, poi si rientra e si fanno le attività un po’ più concentrate. Dipende appunto da dove si è. L’importante è stare con la gente, ascoltare la realtà e camminare con loro, lasciar vedere i segni del Regno di Dio, la presenza di Dio in mezzo a noi.
Tutta la nostra attività sociale è per tutti, non è “l’esca” perché poi si convertano, ma è un aiuto di carità e di amore per chi ha bisogno. Poi in libertà e quando lo Spirito vuole, c’è chi chiede di conoscere il cammino cristiano. C’è sempre qualcuno che chiede ed è molto più facile che ci siano conversioni in città, che non nell’interno, perché nei villaggi la mentalità è molto più chiusa e la vita è molto più abitudinaria, ripetitiva di quello che si è sempre fatto e c’è un controllo sociale molto forte, per cui chi vuole cambiare fa molta fatica.

Perché chi vuole diventare cristiano viene escluso dalla società?

Non solo viene escluso dalla società: viene perseguitato nei modi più diversi, viene giudicato e quindi quelli che fanno la scelta cristiana nei villaggi hanno davvero da affrontare tante difficoltà e sono davvero da ammirare perché vivono un periodo di isolamento.

Poi il villaggio li riaccoglie quando vede che l’essere cristiano non fa male al villaggio, ma anzi diventa un aiuto, perché sono persone che si dedicano agli altri, che aiutano gli ammalati che si impegnano per il bene del villaggio e allora questa paura della novità viene superata. Però ci vogliono un po’ di anni, per cui si tratta di un cammino davvero coraggioso. Io ho conosciuto dei cristiani che davvero hanno sofferto per diventare cristiani e che poi hanno davvero cambiato la vita del villaggio e delle persone.
E quindi lì è la bellezza di essere missionari, di vedere come davvero il Vangelo cambia la vita di una persona, di una famiglia e di una società.

 

Padre Davide, hai accennato a un’altra religione, quella tradizionale: in cosa credono le persone in Guinea Bissau?

Tradizionalmente credono in un dio che ha creato il cielo e la terra, ma è un dio molto lontano per cui ci sono come intermediari degli spiriti e gli antenati.

C’è quindi il culto degli antenati, il rapporto con gli spiriti e vari riti, cerimonie che bisogna fare per creare un buon rapporto con gli spiriti, per placarli quando si è fatto del male a qualcuno. Si tratta di una religione anche molto legata alla natura e ai suoi ritmi. Una religione che ha tanti valori, trasmette dei valori, però ha anche degli aspetti che uno dice “ecco il vangelo ci può liberare”, come ad esempio la concezione che la malattia e la morte siano sempre dovute a qualcuno che ha fatto del male. Quindi non interessa loro sapere di che malattia uno è morto, ma perché è successo, chi è stato. Di conseguenza vanno dallo stregone, fanno queste cerimonie e chi viene incolpato, anche se non c’entra niente, può subire delle violenze. Qualche volta qualcuno viene ucciso, ma soprattutto si crea un clima di paura e diffidenza all’interno della stessa famiglia, perché tante volte viene detto che magari è stato il fratello, o lo zio, o il nipote che ha fatto il malocchio e che è stato la causa della morte di una persona. È chiaro che questo poi crea delle inimicizie.

Qui si vede come invece il vangelo libera, porta nuova vita: tante volte loro ce lo dicevano “è grazie a voi che adesso noi possiamo scavare un pozzo insieme”.

Ad esempio, anche per scavare un pozzo o costruire una scuola inizialmente ci sono difficoltà a farli lavorare insieme proprio per queste paure, perché magari si ha paura che quelli di quel quartiere possono fare del male, non del male fisico ma attraverso le forze spirituali.
L’annuncio del Vangelo, invece, libera da queste paure, crea solidarietà, crea comunione, crea relazioni nuove.

 

C’è qualche altro aneddoto sempre della vita in Guinea Bissau che ci vuoi raccontare?

Vorrei proprio sottolineare questo aspetto che

la proposta del Vangelo è una proposta fatta nella libertà ed è bello vedere quando sono loro che chiedono di conoscere la Parola

e che tante volte purtroppo c’è la difficoltà di non poter soddisfare tutte queste richieste perché siamo in pochi.
Quindi anche noi cristiani qui in Italia dove, pure adesso che è diminuito il numero di credenti, ci si lamenta che i preti sono pochi, non possiamo dimenticare quelle situazioni, che sono la maggioranza, dove il vangelo ancora non è conosciuto e dove si è davvero in pochi a poterlo testimoniare. Non bisogna avere né paura, né egoismo e non dire “adesso basta missionari, perché ce li abbiamo bisogno qua”, perché è veramente una sofferenza quando arrivi in un villaggio e ti dicono “noi vogliamo conoscere il vangelo” e devi dire loro di aspettare un anno, due anni, tre anni perché non c’è nessuno che ci può andare. Questo mi è accaduto quando ero a Mansôa: Gesù è nato 2000 anni fa, ma lì non è ancora arrivato come annuncio e io gli devo dire aspettate ancora, chissà fino a quando perché non sappiamo quando ci saranno i rinforzi.
Questo è davvero un appello ad avere questo cuore grande e il cristiano è uno che ha il cuore grande. Il cristiano che dice “adesso abbiamo bisogno noi” non si fida di Gesù, non si fida della forza dello Spirito. Quindi spero tanto che ci siano giovani che decidano di dare la propria vita per la missione o per qualche anno o per tutta la vita sia per quanto riguarda l’aiuto sociale sia per quanto riguarda l’annuncio del vangelo.

 

Quanti missionari ci sono nelle case del PIME in Guinea Bissau?

Dipende molto; noi cerchiamo di essere almeno in due in modo da fare vita comune. Come missionari viviamo insieme; in diverse missioni c’è anche la presenza delle suore. Adesso stanno aumentando anche i laici che vengono come missionari: dall’Italia vengono già da tanti anni, ma adesso sono molti che vengono anche dall’America Latina, dal Brasile soprattutto per una questione linguistica e quindi si fa tendenzialmente vita comune. Purtroppo a volte per mancanza di personale, come è capitato a me per un certo periodo, si rimane da soli, però questo è davvero difficile sia perché non è bene che l’uomo viva da solo, ma anche proprio per la gestione un po’ di tutto perché in Guinea mancano tanti sostegni. Ad esempio ti devi preoccupare anche dal fatto che funzioni il generatore per fornire elettricità la sera per fare la catechesi: se non va il generatore sei tu che devi correre per ripararlo, se sei capace tu di aggiustarlo, cosa che io non so fare, o ti devi dar da fare per trovare chi sia veramente capace di aggiustarlo, perché magari trovi gente di buona volontà che ti vuole aiutare, ma poi fa più danni che altro. L’essere da soli quindi comporta anche dal punto di vista pratico davvero una grossa difficoltà, per cui noi di solito siamo in due, qualche volta in tre là dove il territorio è molto vasto, e cerchiamo anche di avere una presenza di laici, o di suore anche: la presenza delle suore è molto importante, soprattutto per avvicinare il mondo femminile perché un aspetto della cultura della Guinea è che le donne stanno con le donne gli uomini con gli uomini. È pertanto molto difficile per un prete, nei villaggi è quasi impossibile, avvicinare il mondo delle donne.
Quindi sia per l’evangelizzazione, ma anche per la promozione sociale, se non ci sono le suore o qualche laico, che può essere anche qualche donna cristiana della Guinea, che fa questo servizio, il mondo femminile resta escluso, sì magari vengono alla catechesi, ma non parlano e poi se ne tornano a casa loro.

E a livello sociale le donne sono considerate inferiori rispetto all’uomo?

Sì però dipende molto dalle etnie. Alcune etnie sono più discriminanti delle altre: la donna ha un ruolo veramente basso. In altre etnie le donne hanno una certa loro autonomia; qualche etnia è addirittura matriarcale, quindi la donna ha una certa autorità. Poi nella società ha meno potere, anche se fortunatamente adesso una buona parte delle ragazze va a scuola, mentre prima non andavano, e anche a livello sociale e politico ora si sta facendo molto a favore della donna. Dopo le recenti elezioni è stato fatto un nuovo governo dove ci sono addirittura 11 donne ministre o con un incarico di segreteria generale, quindi una percentuale altissima perché sono 11 su 30.
A livello sociale e politico c’è molta spinta.

Ma come vi spostate per girare nei villaggi?

O in macchina o in moto o bicicletta, dipende un po’ dalle condizioni delle strade e meteorologiche. Io usavo molto la moto, perché le strade sono dissestate e quindi con la moto ci si muove un po’ meglio. Poi però ci sono i 3-4 mesi delle piogge dove le strade sono difficoltose e non si riescono a raggiungere alcuni villaggi, nonostante abbiamo le macchine fuoristrada, per cui anche alcune missioni e diversi posti rimangono isolati, con tutti i problemi se ci sono malati gravi, donne che devono partorire e che hanno difficoltà. Purtroppo tante volte muoiono perché non ci sono mezzi di trasporto: rimangono isolati per le piogge che creano grandi allagamenti e impediscono alle macchine di passare.

Cosa ti piace di più della tua vita attuale?

La mia vita attuale è in un momento di passaggio da questi 6 anni fatti a Roma e visitando i missionari in giro per il mondo, alla ripartenza. Quindi posso dire che in questo momento quello che mi piace è il fatto di dover ripartire perché questo comporta la necessità di ricominciare. Questo ringiovanisce.
Anche a livello spirituale è uno stimolo ad approfondire la propria fede, le motivazioni del perché desidero partire. Però è anche difficile ripartire.
Quindi diciamo che il cambiamento che è la fase che sto vivendo adesso è uno stimolo e rende giovani, non mi fa restare attaccato alla ripetitività, mi scuote. Quindi questo diciamo è l’aspetto credo più faticoso, ma anche più positivo in questa fase che vivrò della ripartenza.

Cosa ti piace di più della tua vita da missionario in missione?

Il rapporto con la gente, che all’inizio ha avuto le sue difficoltà, però la gente è molto semplice, spontanea, pur con le proprie difficoltà.

Occorre però che diano continuità agli impegni che si prendono e questo non sempre si realizza, oppure scopri che qualcuno che si è impegnato in una cosa l’ha fatto solo perché aveva un suo interesse personale.
Quindi io non voglio idealizzare questo paese: non è che sto andando in un paese di santi, o nel paradiso sulla terra. Anzi, è una delle zone più povere del mondo con grandi difficoltà. Però questo rapporto con la gente, questo camminare insieme, questo ascoltare i loro bisogni e insieme a loro cercare di dare una risposta, questa è la cosa che mi piace di più.

E cosa invece ti piace di meno della vita missionaria o della tua vita in questo momento?

Nella vita missionaria quello che è più difficile è proprio il riuscire a dare continuità a quello che si fa perché la Guinea Bissau, come tanti parti dell’Africa, è disseminata di progetti iniziati e sospesi.
Si vedono case, edifici, macchine decadenti, perché magari 10 anni fa era un’attività che funzionava molto bene, poi son finiti i soldi, sono andate via le persone e tutto è morto. Ecco questa è la cosa più difficile, cioè riuscire a dare continuità, a formare delle persone che poi possano continuare il percorso intrapreso.
Anche perché chi lavora all’interno, i giovani migliori, scappano via perché vanno in città a studiare, all’università e l’università è solo in città. Chi lavora in città, invece, vede che i migliori se ne vanno via perché vanno all’estero, perché lì ci sono le condizioni per un lavoro più dignitoso.
Un medico in Guinea Bissau guadagna 100-150 euro al mese e spesso non vengono pagati, o vengono pagati con mesi di ritardo; non ci sono dei buoni macchinari; non ci sono medicine.
Quindi le cose non hanno continuità perché ti vengono a mancare le persone, o perché uno che ti sembrava affidabile invece ha i suoi interessi.
Questo è l’aspetto più difficile: riuscire a creare qualcosa che dia continuità.

La mia gioia è appunto vedere che la radio va avanti, speriamo che continui ad andare avanti. Tante altre attività, magari hanno avuto dei momenti belli e per poi interrompersi e questo fa soffrire.

 

Che cosa ti manca della tua vita?

Quando vado in missione mi vengono a mancare gli amici quelli con cui sono cresciuto, che sono amicizie uniche. Pur avendo io tantissimi amici in Guinea, e sono là che aspettano che io ritorni, penso che le amicizie con cui hai condiviso il periodo dell’adolescenza, o gli anni giovanili, siano delle amicizie uniche. E allora ecco il fatto di essere lontano da questi amici e lontano dalla famiglia, che è un altro aspetto faticoso della vita missionaria, sicuramente mette nostalgia, manca.

 

Qual è il tuo sogno di felicità?

C’era un nostro missionario che a 90 anni dalla Birmania ha scritto che il suo programma di vita è stato quello di rendere felici gli infelici e che la vita è bella quando è donata.

Io credo che questo sia anche il mio programma di vita: il desiderio di poter rendere felici gli infelici e di poter davvero donare la vita perché gli altri possano essere felici.

Questa è la gioia più grande perché è quella condivisa.
Essere felici da soli, non è felicità, può essere piacere, può essere contentezza del momento ma poi sfuma.

Il tuo libro preferito?

A me piace molto leggere i romanzi, dalla narrativa a quello storico, non c’è quindi un libro preferito rispetto ad altri.

 

Un aspetto positivo del tuo carattere

Spero che sia la semplicità.

 

Un aspetto negativo?

L’aspetto negativo è quello di rimanere magari triste perché, quello che io ho pensato non è stato accolto, o non è andato bene come pensavo.

Un dono di natura che hai?

Ho la capacità di organizzare le cose.

 

Un dono che vorresti avere?

Magari più capacità pratiche e tecniche, perché sono un po’ carente.

 

Il tuo piatto preferito?

Il mio piatto preferito in Italia sono i ravioli, mentre in Guinea Bissau è il riso fatto con il frutto della palma: anche se qui in Italia c’è la campagna contro l’olio di palma, in realtà l’olio di palma quando viene trattato bene, preparato bene, non fa male e a meno che uno non esagera, ma lo stesso vale anche per i ravioli e i salumi e queste cose.
Però è molto buono.

Cosa apprezzi di più nelle persone?

La sincerità.

 

Cosa apprezzi di meno nelle persone?

Il voler farsi vedere.

 

Un’abitudine a cui non puoi assolutamente rinunciare?

Quella di camminare in montagna: è una mia grande passione, ma la Guinea è piatta.

 

Il tuo motto?

Se uno ci crede, le cose le fa.

 

Qualche altra cosa che vorresti aggiungere a questa intervista?

Il senso grande di gratitudine verso la comunità di Canegrate, sia i vari sacerdoti, suore che sono passati da questa parrocchia, le tante famiglie, gli amici, sia quelli che frequentano la Chiesa come tanti altri che non si riconoscono nella comunità parrocchiale, che però mi hanno sostenuto e mi sostengono con l’amicizia, ma anche con il lavoro e gli aiuti economici.

Quindi un senso grande di gratitudine e riconoscenza, perché non tutti i missionari hanno accanto una comunità così bella come questa.