Intervista a don Gino

Carta di identità:

Nome: Virginio Mariani

Nato: Concorezzo (Mi) nel novembre del 1945

 

Dove hai vissuto con la tua famiglia?

Da bambino vivevo in un grande cascinale: c’era un cortiletto, una stalla, gli animali, le mucche, il cavallo e poi, poco a poco, i mezzi meccanici che venivano introdotti in agricoltura.

C’era il papà: era un contadino che saltuariamente faceva anche da mediatore per la compravendita degli animali, quando gli amici glielo chiedevano, perché lo stimavano.

La mamma era casalinga, perché i figli da curare erano tanti: io ero l’ultimo di sei, di cui 5 maschi e una femmina, Mariuccia.

 

Come era Don Gino da piccolo?

Don Gino da piccolo era contento di essere amato, perché era una bella famiglia, senza grandi manifestazioni esteriori, ma ci volevamo un gran bene: ne ho un ricordo strepitoso! Anche perché nel cascinale dove vivevamo c’erano gli amici: una cosa meravigliosa poter giocare con loro a tutti i giochi che inventavamo, oppure poter andare in giro nei vari cascinott, i cascinali dove si mettevano gli strumenti di lavoro. Era proprio una bella compagnia. Ricordo che facevamo il giro di questi cascinali alla ricerca di cose un po’ diverse dal solito e di frutta da mangiare, che coglievamo direttamente dagli alberi. E poi c’erano i tornei serali di pallone disputati nel nostro cortiletto: solitamente eravamo i tre più giovani contro i due maggiori di età. Oppure si andava nelle siepi sempreverdi a cercare le forcelle per fare le fionde e sfidarci a chi colpiva più volte i barattoli.

C’era un bel clima, anche con le famiglie vicine: c’era solidarietà, un grande rispetto, anche con chi non era parente.

 

Non ho che da ringraziare Dio per la mia famiglia

 

Eravamo fortunati, lo devo riconoscere: non abbiamo mai sofferto la fame, perché avevamo le mucche. Ricordo ancora la mamma alla sera seduta davanti a un grande secchio con le donne del vicinato che venivano a prendersi il latte e lasciavano qualche moneta. Non eravamo ricchi, assolutamente no, ma non siamo mai rimasti senza cibo, almeno noi figli. I genitori, invece, facevano un po’ di acrobazie, come quando sentivi la mamma che raschiava il fondo della pentola, per far sentire che c’era ancora cibo anche per lei, ma purtroppo non era così.

 

Cosa sognavi di fare da grande?

Non avevo dei sogni ben precisi. Può essere che abbia detto qualche volta a qualche prete della mia parrocchia che mi interessava anche andare a prete, ma era una cosa infantile. La vera scelta l’ho fatto sui 18 – 20 anni. Prima pensavo a studiare: ai tempi andare in seminario significava poter studiare anche per chi non ne aveva la possibilità. Non tutti i paesi, infatti, avevano le scuole superiori: ad esempio a Concorezzo c’era solo la scuola di avviamento professionale.

Il primo anno di scuola media l’ho fatta a Vimercate: per andare a scuola eravamo 5 o 6 ragazzi. Andavamo insieme a piedi lungo una strada sterrata per un chilometro e mezzo per prendere il tram che ci avrebbe portato a Vimercate. Poi mi ricordo che un giorno d’estate ero nei campi per aiutare il papà a raccogliere le patate: lui arava il terreno e io le raccoglievo, finché è arrivato don Roberto che ha iniziato a confabulare con il papà. L’anno dopo sono entrato in seminario per fare la seconda media, con tutte le domande e le riflessioni che ne conseguono come, ad esempio, se è questa la mia strada o no. All’inizio non è stato facile: ogni tanto c’è stata qualche lacrimuccia di nascosto sotto le lenzuola per la lontananza, ma poi man mano che andavo avanti è passato, anche perché a casa mi hanno sempre sostenuto.

Anni dopo, quando dopo una visita a casa, combattuto tra il desiderio di restare in famiglia e quello di tornare alla mia parrocchia dicevo “Devo andare”, il papà mi rispondeva: “Ti và al to’ post”: avvertiva chiaramente il mio bisogno di tornare al mio dovere e questo per lui era un bene, perché sapeva che ero convinto della scelta che avevo fatto e che stavo bene.

Quanto era positivo per me, lo era anche per lui. E mi appoggiava.

 

La chiamata

La decisione è avvenuta sui 18 – 20 anni, dopo il Ginnasio e il Liceo Classico, fatti a Seveso: ero a Saronno per un anno propedeutico di Spiritualità, un anno caratterizzato da una forte riflessione umana e spirituale per prendere una decisione.

Non c’è stata nessuna luce folgorante improvvisa, come qualcuno potrebbe immaginare, ma la decisione è maturata negli anni: crescendo ci sono sensazioni, desideri e aspirazioni, ma anche riflessioni e domande personali, come ad esempio, se vado bene, se sono “a posto” sia dal punto di vista umano, che vocazionale.

Dal confronto, con il padre spirituale, il rettore, il vice rettore, i prefetti e la classe sono giunto così a una consapevolezza sempre più definita, fino alla consacrazione.

 

L’ordinazione sacerdotale

È avvenuta il 28 Giugno 1969, a 23 anni e mezzo. Allora si poteva diventare sacerdote solo a 24 anni compiuti, ma mi hanno dato la dispensa.

Il 29 Giugno c’è stata la prima Messa, celebrata a Concorezzo, insieme ad un altro prete appena consacrato, sempre di Concorezzo.

Da lì il mio cammino è stato abbastanza regolare: ho fatto 19 anni di Oratorio a Brivio, sulle rive dell’Adda, poi 7 anni a Saronno come coadiutore di parrocchia. Di seguito ho trascorso 10 anni a Figino Serenza, vicino a Cantù, come parroco e poi da settembre 2005 a Canegrate.

 

Le sensazioni, le emozioni provate nel celebrare la prima Messa

È stata vissuta con una certa serenità, perché ci si stava preparando da tempo. È un crescere poco a poco, anche nella maturità interiore. Ci sono state tante emozioni, che ci vogliono e ci sono, insieme a un po’ di sogni e a un po’ di ingenuità, come tutte le cose che è giusto che maturino via via.

Uno arriva a diventare prete e ha dei sogni, che si alternano a dei timori, come quello di essere “degni” di quello che si è chiamati a fare, ma poi si incarica la realtà a mantenere le persone ancorate con i piedi a terra. Si sogna una via più facile, forse perché ci si aspetta qualche risultato immediato, perché si stanno dicendo cose importanti, belle. Il problema è che spesso non ci sono questi risultati nella vita di un prete, perché noi siamo chiamati a seminare e questa consapevolezza è già una maturazione. Non ci si aspetta il successo, l’adesione, ma si capisce che Dio ha salvato il mondo annullandosi. La richiesta è quella di donare la propria vita a prescindere dal risultato, dall’approvazione. Regalare la propria vita senza aspettarsi un risultato. Non che non ci sia, ma non è immediato. Questo fa maturare il prete stesso: è convinto della bellezza che il proprio messaggio porta. Il prete è l’uomo che si dona. Più si va avanti più mi accorgo che questo Dio che predichiamo e in cui crediamo è un qualcosa di splendido, perché c’è una vita terrena, una storia umana, con contraddizioni e debolezze, ma è una storia che garantisce la speranza, perché crediamo in un Dio che si è annullato per dare all’uomo la felicità, per liberarlo dal male. Non c’è cosa più grande. Se non ho questa prospettiva, che cosa sono al mondo a fare? E io sono stato chiamato da Dio, non so ancora perché ha chiamato proprio me, ma Dio è capace di scrivere diritto anche sulle righe storte, dicevano una volta. Dio sceglie, non perché uno è bravo. No. È Dio che salva, non lo fa un prete o l’altro. È quindi la fede in Dio che conta, non la simpatia verso un prete o l’altro. È Dio che fa da garante alla mia aspirazione di felicità. È Lui che mi garantisce, nonostante tutto, che il mio desiderio di felicità non è un’illusione. Se dovessi appoggiare il mio desiderio di felicità sulla realtà umana, è meglio lasciar perdere, perché l’uomo sa fare cose bellissime, ma anche cose terribili ed è comunque incapace di liberarsi da solo dal male. È Dio che mi consente di essere sereno, anche magari quando sono triste perché le cose non sono andate come pensavo.

 

Le difficoltà incontrate nella vita di un prete

Le difficoltà sono quelle di una qualsiasi persona che rifletta, che pensi. Quindi sono relative alle grandi domande che da sempre mi accompagnano nella vita.

La difficoltà di sempre è quella che deriva dal desiderio che ci sia un risultato al proprio lavoro, il saper affrontare gli insuccessi. Poi c’è una difficoltà personale, di fede. Per esempio: non è che uno è prete, per cui la fede arriva … così… Credo che sia importante che il prete non sia solo un uomo, ma sia un uomo che pensa, che si fa delle domande a cui cerca di dare delle risposte, che non siano da libro, ma che vengano da un’esperienza di vita che poco a poco si chiarisce e che arriva poi alla fede.

C’è anche il problema che viene dal rapporto con le persone, con le quali si vive, la difficoltà a volte a cogliere in tutte le persone ciò che è positivo. La cosa che mi ripeto sempre è “ricordati che anche quello lì è amato da Dio”, magari quello che ti ha trattato male, che fa sempre di testa sua: anche per lui Dio è andato in croce.

 

Cosa fa un prete durante il giorno?

Di tutto di più. Innanzi tutto la cura di sé dal punto di vista umano, perché un prete può dare se si nutre, se no si diventa parolaio, funzionario. Prima di tutto l’attenzione alla propria vita interiore, che è una cosa che non tocchi con mano. Ma ciò che chiedo a tutti i parrocchiani è ciò che vale per me. Se curo la mia vita interiore, poi tutto ciò che faccio lo farò in un certo modo. Ciò che conta non è fare, ma come fare, con quale motivazione, con quale stile, con quale attenzione verso gli altri, perché si può parlare con freddezza e sbrigativamente, oppure con finezza, con tenerezza, con passione, con attenzione.

Poi la vita di un prete è fatta di tante cose, la più pesante delle quali, a cui rinuncerei volentieri, è essere amministratore pro tempore di tutte le strutture della parrocchia, del bilancio. Questo perché non sono soldi miei: sono soldi delle persone e devo curare che siano spesi bene. Non è semplice.

Poi ci sono i Sacramenti, soprattutto quelli che segnano i momenti importanti della vita, come il battesimo, i matrimoni e i funerali: momenti in cui le persone si incontrano con le grandi domande della vita.

C’è la cura della Parola di Dio, la liturgia, la cura delle varie celebrazioni, ecc. Ciò che conta sono le preparazioni, che devono essere volte a far pensare: per me, organizzare bene un incontro vuol dire far pensare le persone. Il mio compito è farle crescere, farle maturare dentro, in modo che diventino uomini e cristiani.

Vi è poi l’attenzione da dedicare ai ragazzi e ai giovani attraverso gli oratori, le visite ai malati e tutta la preparazione dei gruppi, la preparazione della predicazione, che non è semplice e per la quale occorre mettersi in ascolto prima delle persone, per sapere ciò che chiedono alla vita, per poter fornire loro delle risposte serie e non le solite stereotipate. C’è tutto un lavoro educativo sottostante….

Infine c’è l’aggiornamento è una cosa importante: un prete deve stare attento a ciò che accade intorno a lui.

C’è tanto da fare ogni giorno, ma a volte c’è bisogno di tirarsi fuori dalle attività per continuare a viverle pienamente, con consapevolezza. Anche Gesù andava a pregare nel deserto per capire la verità del Padre.

Non sempre, però, un prete può prendersi delle pause, neppure quelle previste dal Sinodo.

 

La banalità della vita quotidiana

Prima c’era la Mariuccia che per quasi 50 anni ha regalato la sua vita per me, per suo fratello: è stata una sua scelta lucida e consapevole quella di occuparsi di me. È stato un bel dono. Ora il pasto, non sapendo cucinare e per di più mi occuperebbe troppo tempo, proviene da un servizio che serve anche le persone anziane di Canegrate e che mi risulta molto comodo. Pertanto mangio quello che c’è e questo mi rende più sobrio: quello che mi portano a mezzogiorno un po’ lo tengo anche per la sera, divenendo più attento a chi non ha da mangiare. C’è tanta gente che vive di cose semplici e questo è un modo per far maturare dentro di me una scelta più matura e condivisa con altre persone che magari non hanno una persona accanto: a volte essere soli non è il massimo. Ma quante persone che sono sole!

A volte mi invitano a cena o a pranzo, e devo solo ringraziare, ma avendo il compito della parrocchia, non è facile far combaciare l’invito con tutti gli impegni e non posso sempre garantire l’orario. Ringrazio per i 50 anni con mia sorella, ma anche adesso mi ritengo fortunato.

 

Un dolce ricordo

Il tocco della sorella Mariuccia, dei piatti cucinati con quell’amore unico che può dare la famiglia: una lasagna, una bistecca particolare, dell’insalata.

Gusti semplici, che sanno di casa.

 

Il libro preferito

Romanzi purtroppo ne ho letti pochi, invece leggo spesso le esperienze di uomini che non sono credenti, ma che hanno vissuto una forte tensione alla ricerca di Dio: queste storie mi attirano perché mi fanno capire quanto siamo fortunati. A volte infatti Dio finisce per essere un’abitudine, ma quando incontri queste persone ti risvegliano, così ti accorgi che Dio è fondamentale, che senza Dio non hai risposte. Alcuni esempi: Buzzati, Pasolini, Fabrizio De André e tanti altri: erano tutti cercatori di Dio.

 

Un aspetto positivo del carattere

Cercare di vedere le cose positive anche in chi non ha la mia stessa opinione. Cerco, ma forse non sempre ci riesco.

 

Un aspetto negativo del carattere

Tanti. Sono un po’ contorto: per arrivare a un punto faccio dei giri lunghi. Sono anche incerto e per arrivare a una decisione ho bisogno di tempo e di ascoltare molto. Per questo potrei dire che sono lento. Forse anche perché la realtà è molto più complessa degli schemi in cui noi la vogliamo ingabbiare per semplificarla.

 

Cosa apprezzi di più di una persona

La finezza, la tenerezza, la sincerità.

 

Cosa apprezzi di meno di una persona

Il parlare a vuoto, senza pensare prima di parlare.

 

Un’abitudine a cui non può rinunciare

Premesso che si può rinunciare a qualsiasi abitudine, mi piace leggere un po’ con calma prima di andare a dormire, perché mi rilassa.

 

Motto

Nonostante tutto, abbi fiducia: Dio sa meglio di te quello che è bene per te.