Intervista a suor Ceci
Nome e cognome:
Cecilia Hernandez
Dove sei nata?
Palmar Puebla (Messico), il 12 Aprile 1975.
Dove hai vissuto?
Fino a diciassette anni ho vissuto a Palmar con la mia famiglia, composta da papà, mamma, sei figli maschi e tre figlie femmine, delle quali sono la più piccola. A diciassette anni ho lasciato casa per andare in convento a Xalapa, poi, dopo i primi voti, mi sono trasferita a Cordoba, quindi a Puebla, presso la parrocchia di San Martin Texmelucan, e poi a San Lucas, nella diocesi di La Paz, per tre anni. Dopo i voti definitivi, sono stata a Durango, dove sono rimasta fino al 2005, quando sono venuta qui, a San Giorgio su Legnano prima e a Canegrate poi.
Come eri da piccola? Quali erano le tue passioni?
Fino a undici anni ero una bambina come tutte le altre. Andavo a scuola, dalla nonna, mi piaceva giocare con le mie amiche e i miei fratelli. Ero la capa dei miei fratelli più piccoli. Sognavo di studiare e di fare l’insegnante. Mi piaceva molto leggere mentre non ero particolarmente portata per gli sport, anche se mi piaceva, e mi piace ancora, camminare. Mi piaceva anche stare in casa e prendermi del tempo per me.
Quando invece hai sentito di voler dedicare tutta la tua vita a Gesù?
A undici anni, quando ho fatto la cresima, ma già prima sentivo qualcosa crescere in me: qualcosa di speciale. Sapevo che non avrei mai voluto sposarmi, ma non sapevo bene cosa fosse quel qualcosa che sentivo. La mamma pregava tanto in casa, dove avevamo un piccolo altare, ma non frequentava molto la messa, perché da noi non c’era la parrocchia ma solo una cappella, e la messa si celebrava una volta al mese. Quando abbiamo imparato a leggere, la mamma diceva a noi di dire le preghiere.
Ricordo che andavamo sempre a messa a maggio con le mie amiche, perché maggio era dedicato alle bambine, in quanto mese della Madonna, e si offrivano i fiori. Giugno era, invece, dedicato ai bambini, ma io e le mie amiche andavamo comunque in chiesa, perché ci piaceva, come mi piaceva confrontarmi anche con le ragazze più grandi.
Ricordo che a undici anni ho visto da lontano una suora e ho chiesto a mia sorella maggiore se si nascesse o si diventasse preti e suore, ma lei non ha saputo rispondermi.
Una nipote di mio padre, però, conosceva delle suore del Sacro Cuore, che, due mesi prima della mia partenza, sono venute a parlarmi. Mi hanno chiesto come potevo desiderare di essere suora se non ne avevo mai vista una, per poi dirmi che ero ancora piccola e che sarebbero tornate più in là nel tempo. Ma non sono mai tornate. A diciassette anni e mezzo, allora, sono uscita di casa e mi sono unita a un altro gruppo di suore. Quando le prime che avevo incontrato lo hanno saputo, hanno detto, scherzosamente, che sarei dovuta andare con loro, ma ormai il mio treno era passato ed ero già salita a bordo.
E la tua famiglia come ha accolto questa tua scelta?
La mamma piangeva quando sono andata via perché, essendo la più piccola tra le figlie femmine, pensava dovessi rimanere in casa. Le ho detto che i primi mesi erano comunque una prova e che, se non mi fossi trovata bene, avrei sempre potuto tornare. Alla fine lei mi ha capita e ora è felice, anche perché loro sono ancora tutti insieme. I miei fratelli sono tutti sposati tranne uno, e hanno i loro figli, alcuni, come quelli di mia sorella maggiore, già adolescenti e che lavorano.
Devo dire che avevo paura di dirlo a mio papà, invece. Avevo chiesto alla mamma di dirglielo, ma lei ha risposto che era una mia scelta e che dovevo essere io a comunicargliela. Ho trovato il coraggio solo la sera prima della mia partenza, ma mio padre si è dimostrato subito comprensivo e mi ha detto che, se era ciò che volevo, dovevo andare. Insomma, mi ero preoccupata tanto e, invece, è stato più facile accettarlo per papà piuttosto che per mamma.
È stato difficile per te prendere questa decisione?
No. Non avendo avuto nessuna conoscenza in ambito ecclesiale che potesse ispirarmi, io dico sempre che è stata proprio una vocazione dall’alto e mi ritengo fortunata per questo. Alla fine, non è importante cosa si fa, ma solo essere con Gesù.
Come è stata la vita quando eri novizia?
Sono entrata in convento a Settembre e nei primi cinque mesi le ragazze appena arrivate, come me, chiamate le aspiranti, facevano i primi passi nella vita consacrata. Non avevamo nemmeno la divisa ancora.
Poi inizia il postulantato, che dura un anno. Ci hanno dato il velo e potevamo ancora vedere la nostra famiglia una volta al mese.
Una volta compiuto il postulantato (ricordo che era il 10 giugno), è iniziato il noviziato, di due anni. Il primo anno non era possibile vedere nessuno poiché il canone prevede che questo periodo sia dedicato alla formazione. Nel secondo anno, invece, era permesso uscire e andare, ad esempio, a fare catechismo ai bambini.
Al termine del noviziato, ho preso i primi voti. Questi sono voti che vanno rinnovati ogni anno per sei anni, per confermare che, anche se si vive una vita “libera”, fuori dal convento, si continua a essere convinti della propria scelta.
Durante questi sei anni sono stata prima in convento a Xalapa e poi a Cordoba, dove ho preso la maturità e ho poi studiato informatica. Mi sono poi trasferita a Puebla, dove sono rimasta due anni, al termine dei quali sono andata a San Lucas, per rimanervi tre anni e tornare infine in convento per fare un altro anno di formazione e arrivare alla consacrazione totale nel 2004, con i voti definitivi. Una volta presi i voti, sono stata per un anno a Durango e poi sono arrivata in Italia.
Hai incontrato qualche difficoltà nel tuo cammino per diventare suora?
Il primo periodo in Italia è stato difficile: è stato come rinascere un’altra volta, perché era tutto diverso. La lingua, prima di tutto: ho imparato a leggere l’italiano in un mese e a parlarlo in cinque mesi grazie a un insegnante, ma, soprattutto, al mio dizionario, che è stato il più prezioso alleato. Avevo un dizionario che conteneva anche gli accenti, così ho potuto imparare a pronunciare bene le parole, in fretta.
L’incontro con le persone di qui è stata la parte più complessa per me, perché mi sembravano molto diverse dai Messicani. In Messico preti e suore sono come “autorità”: ciò che dicono si fa. Ero abituata ad avere cinquecento bambini che mi ubbidivano, mentre qui magari ce n’erano dieci, ma non ascoltavano. Le ragazze e i bambini, quando torno in Messico, mi cercano ancora per parlare.
Anche il modo di approcciarsi della gente qui mi pareva diverso: in Messico erano molto generosi, ci riempivano di doni e c’era molto rispetto, perché, sebbene lo stato non collabori con la Chiesa, il 90% della popolazione va in Chiesa e fa pellegrinaggi: abbiamo la Madonna di Guadalupe da noi.
Ma poi ho imparato a conoscervi e mi sono trovata molto bene. Ho trovato una comunità molto accogliente: ragazzi, bambini e adulti sono in realtà molto attenti e mi sono sentita davvero a casa, seppur con le differenze inevitabili che ci sono tra i popoli.
Cosa significa per te essere suora?
È un cammino. Si fanno tante cose, si incontrano tante persone e il rischio è di trascurare la vita spirituale. Io ho sempre pregato molto, ma spesso, da giovane, sentivo non fosse ancora abbastanza. Ora, grazie al mio padre spirituale, sono cresciuta e sento che Dio mi accompagna sempre, anche nei momenti difficili. Lo scorso anno, per esempio, ho perso il mio papà e questo mi ha permesso di capire la maturità della mia fede, che non si è affievolita a causa del dolore. Anzi, il mio dolore mi ha fatto pensare al dolore estremo, quello di Gesù sulla croce e a Isaia, che parlava già del servo che avrebbe dovuto soffrire: mi sono davvero sentita accompagnata da Gesù in quel momento così difficile. Mi ha aiutata anche nello sbrigare le pratiche per il funerale: infatti c’era il COVID e il prete non poteva celebrarlo, quindi ho dovuto fare tutto da sola.
Il tuo sogno di felicità?
Felicità è Gesù ed è cercare di stare bene con tutti. Noi siamo 150 suore e io mi ero abituata a stare con Suor Lucy. Ora non so chi troverò in Messico, ma so che cercherò di fare del mio meglio, di fare ciò che è necessario fare senza farmi problemi, perché siamo tutti diversi e dobbiamo imparare ad accogliere chi abbiamo davanti a noi. Io desidero trovare la felicità in ciò che mi viene chiesto.
Un aspetto positivo del tuo carattere?
Essere sempre disponibile, con chiunque.
Un aspetto negativo?
Non è proprio del tutto negativo, ma sono timida e molto sensibile. Ma sono queste caratteristiche che mi aiutano a tirare fuori il buono che ho dentro. Io voglio migliorare ogni giorno, mettermi a disposizione degli altri, essere generosa quando mi viene chiesto qualcosa e forte quando c’è qualcosa da risolvere.
Il tuo piatto preferito?
Ecco, devo ammetterlo, quando sono arrivata qui non mi piaceva, ma ora ho imparato a cucinarlo molto bene e mi piace: il risotto. Mi piace alla milanese, ai funghi, alle zucchine e agli asparagi.
La tua bevanda preferita?
Acqua, anche se ho imparato ad apprezzare il vino frizzante amabile.
Che cosa apprezzi di più nelle persone?
Apprezzo le persone che, anche se non ti conoscono, ti guardano negli occhi e ti danno la loro attenzione.
Il tuo motto?
Quello che ho scelto quando ho preso i voti: il Cantico dei Cantici 8,6.
“Le grandi acque
non possono spegnere l’amore
Né i fiumi travolgerlo”
L’ho scelto perché, anche quando veniamo messi alla prova, non siamo mai nell’abbandono, ma siamo sempre nell’amore forte che ci sostiene: l’amore di Gesù.
Cosa ti aspetti dalla tua nuova avventura in Messico?
Mi aspetto di trovarmi bene con le mie consorelle e i preti, di solito lì ci sono preti giovani, e di essere felice.
Cosa ti mancherà dell’Italia?
Mi mancherà la gente, perché mi sono sentita davvero a casa qui.
E poi mi mancherà passeggiare per le vie di Milano. Ho studiato lì e non prendevo mai la metropolitana, perché preferivo camminare e guardarmi intorno.
Un augurio speciale per le ragazze e i ragazzi dell’Oratorio?
Un augurio per tutti, lo stesso che ho letto nel mio messaggio al termine della messa di saluto. Vi auguro che ognuno di voi scopra quanto è amato da Dio in Gesù.